Dantedì: nella giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, scopriamo come il Sommo poeta portò il volgare fiorentino sulla bocca di tutti.
Nell'Ottocento, con il Risorgimento, si impose l'idea patriottica di Dante come padre della lingua italiana, con l'aggiunta di Petrarca e Boccaccio a costituire il canone fondamentale della nostra letteratura. Metabolizzato il successo della Commedia, in un primo momento sembrò riemergere l'uso del latino classico (in letteratura e nella diplomazia) a discapito del neonato italiano. «Invece Bembo, grazie a Manuzio, poté impadronirsi a pieno del fiorentino dei grandi trecentisti e proporlo come modello di lingua letteraria comune». E lo fece utilizzando quello che oggi è considerato un dialetto, il siciliano, anche se comunque si trattava di una lingua letteraria, con molti influssi dal latino. L'operazione fu vincente: il veneziano proponeva un concetto caro al Rinascimento, quello dell'imitatio dei grandi autori, che risultava possibile anche perché la scrittura di Petrarca e Boccaccio era facilmente riproponibile. L'Italia, dopo circa due secoli di ritardo rispetto a quanto era avvenuto in Francia con il provenzale, produsse la propria letteratura in volgare. E come lingua franca scritta si usava il latino o il francese. Eppure la prima scuola poetica italiana "parlava" un altro dialetto, il siciliano. Grazie a questo straordinario successo fu evidente che nello scrivere in volgare, in Italia, non si poteva più prescindere dal fiorentino. E IL SICILIANO? Fra il XIII e il XIV secolo non c'era ancora un'idea chiara su quale lingua standard dovesse essere usata in Italia. Se oggi parliamo italiano il merito è anche di Dante Alighieri.