Seconda produzione interamente statunitense, undicesimo lungometraggio del regista, ribadisce parecchie caratteristiche della sua poetica.
Ma a fare la differenza sono stavolta l’atmosfera generale, “espansa” per ragioni puramente territoriali in una geografia dai confini meno definiti in cui il Male sembra annidarsi ovunque, e una minore incidenza degli effetti gore (comunque affidati alle capacissime mani del maestro romeriano Tom Savini) a vantaggio di una più attenta composizione della suspense e delle psicologie dei personaggi, accentuata da un dato dolente scopertamente autobiografico e autoanalitico. Dopo il brutale omicidio di un’infermiera decapitata per mezzo di una sorta di garrota elettrica da parte di un misterioso nuovo paziente, l’immigrata romena anoressica Aura Petrescu (Asia Argento) fugge dall’ospedale psichiatrico in cui è ricoverata, tenta il suicidio e viene salvata dal giornalista televisivo con dipendenze tossiche David Parsons (Christopher Rydell). Segna da un lato una necessità nascosta di rinnovamento del regista, dopo le delusioni per la complicata produzione di “Opera” (1987) e un calo di popolarità presso il grande pubblico dopo due decenni da padrone incontrastato del botteghino per quel che concerne il cinema di genere italiano; ma anche l’esigenza di ribadire, forse non del tutto consciamente, parecchie caratteristiche e forme e ossessioni della sua personalissima poetica, a partire dal soggetto elaborato con i sodali Franco Ferrini e Gianni Romoli sulla base di un suo racconto (“L’enigma di Aura”) e sviluppato con il celebre romanziere T.E.D.